USCIAMO DALL'EURO SUBITO!
Feld, consigliere economico di Merkel, è convinto che il debito pubblico italiano non sia sostenibile.
"Europa e Bce non stabilizzeranno l'economia italiana, se gli italiani rifiutano le riforme", dice. Per Boerner, presidente dell'associazione export tedesco, "bisogna ripensare all'Eurozona".
L’uscita dall'euro prossima ventura - Un anno fa, discorrendo con Aristide, chiedevo come mai la sinistra italiana rivendicasse con tanto orgoglio la paternità dell’euro: non vedeva quanto esso fosse opposto agli interessi del suo elettorato? Una domanda simile a quella di Rossanda. Aristide, economista di sinistra, mi raggelò: “caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono noti, tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma non potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto confrontare costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro. Tenendo gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire, mettendoli in una impasse dalla quale non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta, cioè di andare avanti verso la totale unione, fiscale e politica, dell’Europa.”
Insomma: “il popolo non sa quale sia il suo interesse: per fortuna a sinistra lo sappiamo e lo faremo contro la sua volontà”. Ovvero: so che non sai nuotare e che se ti getto in piscina affogherai, a meno che tu non “decida liberamente” di fare la cosa giusta: imparare a nuotare. Decisione che prenderai dopo un leale dibattito, basato sul fatto che ti arrivo alle spalle e ti spingo in acqua. Bella democrazia in un intellettuale di sinistra! Questo agghiacciante paternalismo può sembrare più fisiologico in un democristiano, ma non dovrebbe esserlo. “Bello è di un regno come che sia l’acquisto”, dice re Desiderio. Il cattolico Prodi l’Adelchi l’ha letto solo fino a qui. Proseguendo, avrebbe visto che per il cattolico Manzoni la Realpolitik finisce in tragedia: il fine non giustifica i mezzi. La nemesi è nella convinzione che “più Europa” risolva i problemi: un argomento la cui futilità non può essere apprezzata se prima non si analizza la reale natura delle tensioni attuali.
Il debito pubblico non c’entra - Sgomenta l’unanimità con la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico. Che lo faccia la destra non è strano: il contrattacco ideologico all’intervento dello Stato nell’economia è il fulcro della “controriforma” seguita al crollo del muro. Questo a Rossanda è chiaro. Le ricordo che nessun economista ha mai asserito, prima del trattato di Maastricht, che la sostenibilità di un’unione monetaria richieda il rispetto di soglie sul debito pubblico (il 60% di cui parla lei). Il dibattito sulla “convergenza fiscale” è nato dopo Maastricht, ribadendo il fatto che queste soglie sono insensate. Maastricht è un manifesto ideologico: meno Stato (ergo più mercato). Ma perché qui (cioè a sinistra?) nessuno mette Maastricht in discussione? Questo Rossanda non lo nota e non se lo chiede. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione. Già nel 2006 la Bce indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”. I Pigs erano un club a parte, distinto dal club del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero (prevalentemente privato).
Inflazione e debito estero - Se in X i prezzi crescono più in fretta che nei suoi partner, X esporta sempre meno, e importa sempre più, andando in deficit di bilancia dei pagamenti. La valuta di X, necessaria per acquistare i beni di X, è meno richiesta e il suo prezzo scende, cioè X svaluta: in questo modo i suoi beni ridiventano convenienti, e lo squilibrio si allevia. Effetti uguali e contrari si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa e si apprezza. Ma se X è legato ai suoi partner da un’unione monetaria, il prezzo della valuta non può ristabilire l’equilibrio esterno, e quindi le soluzioni sono due: o X deflaziona, o i suoi partner in surplus inflazionano. Nella visione keynesiana i due meccanismi sono complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus e deficit sono due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se nessuno è in deficit). Ai tagli nel paese in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Ma la visione prevalente è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i paesi in surplus sono “buoni”, e sono i “cattivi” in deficit a dover deflazionare, convergendo verso i buoni. E se, come i Pigs, non ci riescono? Le entrate da esportazioni diminuiscono e ci si deve indebitare con l’estero per finanziare le proprie importazioni. I paesi a inflazione più alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito estero dal 1999 al 2007: Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67), Irlanda (+65) e Spagna (+62). Con il debito crescono gli interessi, e si entra nella spirale: ci si indebita con l’estero per pagare gli interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi.
Dall’euro usciremo, perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta...
L’uscita dall'euro prossima ventura
Un
anno fa, discorrendo con Aristide, chiedevo come mai la sinistra
italiana rivendicasse con tanto orgoglio la paternità dell’euro: non
vedeva quanto esso fosse opposto agli interessi del suo elettorato? Una
domanda simile a quella di Rossanda. Aristide, economista di sinistra,
mi raggelò: “caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono noti,
tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma
non potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto
confrontare costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro. Tenendo
gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire, mettendoli in una impasse
dalla quale non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta,
cioè di andare avanti verso la totale unione, fiscale e politica,
dell’Europa.”
Insomma: “il popolo non sa quale sia il suo interesse: per fortuna a sinistra lo sappiamo e lo faremo contro la sua volontà”. Ovvero:
so che non sai nuotare e che se ti getto in piscina affogherai, a meno
che tu non “decida liberamente” di fare la cosa giusta: imparare a
nuotare. Decisione che prenderai dopo un leale dibattito, basato
sul fatto che ti arrivo alle spalle e ti spingo in acqua. Bella
democrazia in un intellettuale di sinistra! Questo agghiacciante paternalismo può sembrare più fisiologico in un democristiano, ma non dovrebbe esserlo. “Bello è di un regno come che sia l’acquisto”,
dice re Desiderio. Il cattolico Prodi l’Adelchi l’ha letto solo fino a
qui. Proseguendo, avrebbe visto che per il cattolico Manzoni la
Realpolitik finisce in tragedia: il fine non giustifica i mezzi. La
nemesi è nella convinzione che “più Europa” risolva i problemi: un
argomento la cui futilità non può essere apprezzata se prima non si
analizza la reale natura delle tensioni attuali.
Il debito pubblico non c’entra.
Sgomenta l’unanimità con la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico.
Che lo faccia la destra non è strano: il contrattacco ideologico
all’intervento dello Stato nell’economia è il fulcro della
“controriforma” seguita al crollo del muro. Questo a Rossanda è chiaro.
Le ricordo che nessun economista ha mai asserito, prima del trattato
di Maastricht, che la sostenibilità di un’unione monetaria richieda il
rispetto di soglie sul debito pubblico (il 60% di cui parla lei). Il dibattito sulla “convergenza fiscale” è nato dopo Maastricht, ribadendo il fatto che queste soglie sono insensate.
Maastricht è un manifesto ideologico: meno Stato (ergo più mercato). Ma
perché qui (cioè a sinistra?) nessuno mette Maastricht in discussione?
Questo Rossanda non lo nota e non se lo chiede. Se il problema fosse il
debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia
(debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia
(67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti
pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito
pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma
l’inflazione. Già nel 2006 la Bce indicava che in Portogallo, Irlanda,
Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei
paesi “virtuosi”. I Pigs erano un club a parte, distinto dal club
del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo sì che era un
problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non
uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero
(prevalentemente privato).
Inflazione e debito estero.
Se in X i prezzi
crescono più in fretta che nei suoi partner, X esporta sempre meno, e
importa sempre più, andando in deficit di bilancia dei pagamenti. La
valuta di X, necessaria per acquistare i beni di X, è meno richiesta e
il suo prezzo scende, cioè X svaluta: in questo modo i suoi beni
ridiventano convenienti, e lo squilibrio si allevia. Effetti uguali e
contrari si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa
e si apprezza. Ma se X è legato ai suoi partner da un’unione monetaria,
il prezzo della valuta non può ristabilire l’equilibrio esterno, e
quindi le soluzioni sono due: o X deflaziona, o i suoi partner in
surplus inflazionano. Nella visione keynesiana i due meccanismi sono
complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus e deficit sono
due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se nessuno è
in deficit). Ai tagli nel paese in deficit deve accompagnarsi
un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Ma la visione
prevalente è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i
paesi in surplus sono “buoni”, e sono i “cattivi” in deficit a dover
deflazionare, convergendo verso i buoni. E se, come i Pigs, non ci
riescono? Le entrate da esportazioni diminuiscono e ci si deve
indebitare con l’estero per finanziare le proprie importazioni. I paesi a
inflazione più alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito
estero dal 1999 al 2007: Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67),
Irlanda (+65) e Spagna (+62). Con il debito crescono gli interessi, e si
entra nella spirale: ci si indebita con l’estero per pagare gli
interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi.
Lo spettro del 1992.
E l’Italia? Dice
Rossanda: “il nostro indebitamento è soprattutto all’interno”. Non è più
vero. Pensate veramente che ai mercati interessi con chi va a letto
Berlusconi? Pensate che si preoccupino perché il debito pubblico è
“alto”? Ma il nostro debito pubblico è sopra il 100% da 20 anni, e i
nostri governi, anche se meno folcloristici, sono stati spesso più
instabili. Non è questo che preoccupa i mercati: quello che li preoccupa
è che oggi, come nel 1992, il nostro indebitamento con l’estero sta
aumentando, e che questo aumento, come nel 1992, è guidato dall’aumento
dei pagamenti di interessi sul debito estero, che è in massima parte
debito privato, contratto da famiglie e imprese (il 65% delle passività
sull’estero dell’Italia sono di origine privata).
Calata
nell’asimmetria ideologica mercantilista (i “buoni” non devono
cooperare) e monetarista (inflazione zero) la scelta politica di
privarsi dello strumento del cambio diventa strumento di lotta di
classe.
Se il cambio è fisso, il
peso dell’aggiustamento si scarica sui prezzi dei beni, che possono
diminuire o riducendo i costi (quello del lavoro, visto che quello delle
materie prime non dipende da noi) o aumentando la produttività.
Precarietà e riduzioni dei salari sono dietro l’angolo. La sinistra che vuole l’euro ma non vuole Marchionne mi fa un po’ pena.
Chi non deflaziona accumula debito estero, fino alla crisi, in seguito
alla quale lo Stato, per evitare il collasso delle banche, si accolla i
debiti dovuti agli squilibri esterni, trasformandoli in debiti pubblici.
Alla privatizzazione dei profitti segue la socializzazione delle
perdite, con il vantaggio di poter incolpare a posteriori i bilanci
pubblici. La scelta non è se deflazionare o meno, ma se farlo subito o
meno. Una scelta ristretta, ma solo perché l’ottusità ideologica impone
di concentrarsi sul sintomo (lo squilibrio pubblico, che può essere
corretto solo tagliando), anziché sulla causa (lo squilibrio esterno,
che potrebbe essere corretto cooperando). Alla domanda di Rossanda “non
c’è stato qualche errore?” la risposta è quella che dà lei stessa: no,
non c’è stato nessun errore. Lo scopo che si voleva raggiungere, cioè la
“disciplina” dei lavoratori, è stato raggiunto: non sarà “di sinistra”,
ma se volete continuare a chiamare “sinistra” dei governi “tecnici” a
guida democristiana accomodatevi. Lo dice il manuale di Acocella: il
“cambio forte” serve a disciplinare i sindacati.
Più Europa?
Secondo la teoria
economica un’unione monetaria può reggere senza tensioni sui salari se i
paesi sono fiscalmente integrati, poiché ciò facilita il trasferimento
di risorse da quelli in espansione a quelli in recessione. Una
“soluzione” che interviene a valle, cioè allevia i sintomi, senza curare
la causa (gli squilibri esterni). È il famoso “più Europa”. Un
esempio: festeggiamo quest’anno il 150° anniversario dell’unione
monetaria, fiscale e politica del nostro paese. “Più Italia” l’abbiamo
avuta, non vi pare? Ma 150 anni dopo la convergenza dei prezzi fra le
varie regioni non è completa, e il Sud ha un indebitamento estero
strutturale superiore al 15% del proprio Pil, cioè sopravvive importando
capitali dal resto del mondo (ma in effetti dal resto d’Italia). Dopo
cinquanta anni di integrazione fiscale nell’Italia (monetariamente)
unita abbiamo le camicie verdi in Padania: basterebbero dieci anni di
integrazione fiscale nell’area euro, magari a colpi di Eurobond, per
riavere le camicie brune in Germania. L’integrazione fiscale non è
politicamente sostenibile perché nessuno vuole pagare per gli altri,
soprattutto quando i media, schiavi dell’asimmetria ideologica,
bombardano con il messaggio che gli altri sono pigri, poco produttivi,
che “è colpa loro”. Siano greci, turchi, o ebrei, sappiamo come va a
finire quando la colpa è degli altri.
Deutschland über alles.
Le soluzioni “a valle”
dello squilibrio esterno sono politicamente insostenibili, ma lo sono
anche quelle “a monte”. La convivenza con l’euro richiederebbe l’uscita
dall’asimmetria ideologica mercantilista. Bisognerebbe prevedere
simmetrici incentivi al rientro per chi si scostasse in alto o in basso
da un obiettivo di inflazione. Il coordinamento del quale Rossanda parla
andrebbe costruito attorno a questo obiettivo. Ma il peso dei paesi
“virtuosi” lo impedirà. Perché l’euro è l’esito di due processi storici.
Rossanda vede il primo (il contrattacco del capitale per recuperare
l’arretramento determinato dal new deal post-bellico), ma non il
secondo: la lotta secolare della Germania per dotarsi di un mercato di sbocco.
Ci si estasia (a destra e a sinistra) per il successo della Germania,
la “locomotiva” d’Europa, che cresce intercettando la domanda dei paesi
emergenti. Ma i dati che dicono? Dal 1999 al 2007 il surplus tedesco è
aumentato di 239 miliardi di dollari, di cui 156 realizzati in Europa,
mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi
(da un deficit di -4 a uno di -24). I giornali dicono che la Germania
esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita. I
dati dicono il contrario. La domanda dei paesi europei, drogata
dal cambio fisso, sostiene la crescita tedesca. E la Germania non
rinuncerà a un’asimmetria sulla quale si sta ingrassando. Ma perché i
governi “periferici” si sono fatti abbindolare dalla Germania? Lo dice il manuale di Gandolfo: la
moneta unica favorisce una “illusione della politica economica” che
permette ai governi di perseguire obiettivi politicamente improponibili,
cavandosela col dire che sono imposti da istanze sopraordinate (quante volte ci siamo sentiti dire “l’Europa ci chiede...”?). Il fine (della lotta di classe al contrario) giustificava il mezzo (l’ancoraggio alla Germania).
La svalutazione rende ciechi.
È un film già visto.
Ricordate lo Sme “credibile”? Dal 1987 al 1991 i cambi europei rimasero
fissi. In Italia l’inflazione salì dal 4.7% al 6.2%, con il prezzo del
petrolio in calo (ma i cambi fissi non domavano l’inflazione?). La
Germania viaggiava su una media del 2%. La competitività italiana
diminuiva, l’indebitamento estero aumentava, e dopo la recessione Usa
del 1991 l’Italia dovette svalutare. Svalutazione! Provate a dire
questa parola a un intellettuale di sinistra. Arrossirà di sdegnato
pudore virginale. Non è colpa sua. Da decenni lo bombardano con il
messaggio che la svalutazione è una di quelle cosacce che provocano uno
sterile sollievo temporaneo e orrendi danni di lungo periodo. Non è
strano che un sistema a guida tedesca sia retto dal principio di
Goebbels: basta ripetere abbastanza una bugia perché diventi una verità.
Ma cosa accadde dopo il 1992? L’inflazione scese di mezzo punto nel ’93
e di un altro mezzo nel ’94. Il rapporto debito estero/Pil si dimezzò
in cinque anni (da -12 a -6 punti di Pil). La bolletta energetica
migliorò (da -1.1 a -1.0 punti). Dopo uno shock iniziale, l’Italia
crebbe a una media del 2% dal 1994 al 2001. La lezioncina sui danni
della svalutazione (genera inflazione, procura un sollievo solo
temporaneo, non ce la possiamo permettere perché importiamo il petrolio)
è falsa.
Irreversibile?
Si dice che la
svalutazione non sarebbe risolutiva, e che le procedure di uscita non
sono previste, quindi... Quindi cosa? Chi è così ingenuo da non vedere
che la mancanza di procedure di uscita è solo un espediente retorico, il
cui scopo è quello di radicare nel pubblico l’idea di una “naturale” o
“tecnica” irreversibilità di quella che in fondo è una scelta umana e
politica (e come tale reversibile)? Certo, la svalutazione
renderebbe più oneroso il debito definito in valuta estera. Ma
porterebbe da una situazione di indebitamento estero a una di
accreditamento estero, producendo risorse sufficienti a ripagare i
debiti, come nel 1992. Se non lo fossero, rimarrebbe la possibilità del
default. Prodi vuol far sostenere una parte del conto ai “grossi
investitori istituzionali”? Bene: il modo più diretto per farlo non è
emettere Eurobond “socializzando” le perdite a beneficio della Germania
(col rischio camicie brune), ma dichiarare, se sarà necessario, il
default, come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati
dalla geografia economica per questo. È già successo e succederà. “I mercati ci puniranno, finiremo stritolati!”. Altra idiozia. Per decenni l’Italia è cresciuta senza ricorrere al risparmio estero. È l’euro che, stritolando i redditi e quindi i risparmi delle famiglie, ha costretto il paese a indebitarsi con l’estero. Il
risparmio nazionale lordo, stabile attorno al 21% dal 1980 al 1999, è
sceso costantemente da allora fino a toccare il 16% del reddito. Nello
stesso periodo le passività finanziarie delle famiglie sono raddoppiate,
dal 40% all’80%. Rimuoviamo l’euro, e l’Italia avrà meno bisogno dei
mercati, mentre i mercati continueranno ad avere bisogno dei 60 milioni
di consumatori italiani.
Non faccia la sinistra ciò che fa la destra.
Dall’euro usciremo,
perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta. Sta alla
sinistra rendersene conto e gestire questo processo, anziché finire
sbriciolata. Non sto parlando delle prossime elezioni. Berlusconi se
ne andrà: dieci anni di euro hanno creato tensioni tali per cui la
macelleria sociale deve ora lavorare a pieno regime. E gli schizzi di
sangue stonano meno sul grembiule rosso. Sarà ancora una volta
concesso alla sinistra della Realpolitik di gestire la situazione,
perché esiste un’altra illusione della politica economica, quella che
rende più accettabili politiche di destra se chi le attua dice di essere
di sinistra. Ma gli elettori cominciano a intuire che la macelleria
sociale si può chiudere uscendo dall’euro. Cara Rossanda, gli operai non sono “scombussolati”, come dice lei: stanno solo capendo. “Peccato e vergogna non restano nascosti”, dice
lo spirito maligno a Gretchen. Così, dopo vent’anni di Realpolitik, ad
annaspare dove non si tocca si ritrovano i politici di sinistra, stretti
fra la necessità di ossequiare la finanza, e quella di giustificare al
loro elettorato una scelta fascista non tanto per le sue conseguenze di
classe, quanto per il paternalismo con il quale è stata imposta. Si
espongono così alle incursioni delle varie Marine Le Pen che si stanno
affacciando in paesi di democrazia più compiuta, e presto anche da noi.
Perché le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la
destra. Ma mi rendo conto che in un paese nel quale basta una
legislatura per meritarsi una pensione d’oro, il lungo periodo possa non
essere un problema dei politici di destra e di sinistra. Questo spiega
tanta unanimità di vedute.
Autore ALBERTO BAGNAI - 22.08.2011
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